Caro Marco,
Oggi, 3 ottobre. L’aria stamattina era così frizzante che entrando a scuola ho avuto l’impressione che le mie guance si fossero trasformate in mele fredde. Il cielo sopra Aosta è di un blu così intenso, Marco, che sembra finto. E sento che il tempo comincia ad accelerare, come se i giorni volessero scivolare via velocemente verso il grande freddo.
A scuola abbiamo parlato di ecologia e del “fast fashion,” di quanto buttiamo via e di quanto produciamo in fretta. È un argomento che mi fa male, perché mi fa pensare ai bambini che non hanno vestiti, a quelli che scappano con un sacchetto di plastica come unica valigia, le cui immagini vedo sempre più spesso in televisione.
Quando sono tornata a casa, la nonna Emma stava facendo una cosa che per me è ormai preistoria: stava rattoppando un suo vecchio maglione di lana, un po’ sformato, con un pezzo di tessuto di un colore diverso. Stava cucendo un difetto con attenzione, non per nasconderlo, ma per onorarlo.
Le ho chiesto se buttavano via i vestiti nell’immediato dopoguerra. Lei ha sollevato gli occhi, e c’era quasi sconcerto nel suo sguardo. “Buttare via? Cristina, l’unica cosa che buttavamo via era la paura, e ci riuscivamo a fatica.”
Mi ha raccontato di come i vestiti fossero considerati un patrimonio di famiglia, passati di fratello in fratello, fino a che non diventavano stracci buoni solo per pulire i pavimenti. Mi ha parlato di Monsieur Didier, il sarto che lavorava in Via Sant’Anselmo. Non era ricco come quelli che facevano abiti nuovi. Lui era il Maestro del Rattoppo.
La nonna mi ha descritto la sua bottega piccola e buia, illuminata solo da una lampadina fioca. Monsieur Didier non usava macchine da cucire moderne; cuciva a mano, con un ago finissimo. La gente gli portava i capi più disperati: giacche strappate dai bombardamenti, pantaloni bucati dalla fatica del lavoro nei campi. E lui non li nascondeva, i difetti. Lui li trasformava.
“Ogni rattoppo,” mi ha spiegato la nonna con voce quasi solenne, “era una storia di sopravvivenza cucita sulla stoffa. Lui rendeva l’abito più bello non perché era nuovo, ma perché era resiliente. Era la prova che avevi resistito. Non buttare via significava dare valore alla fatica che c’era dietro ogni filo di lana.”
Mi ha anche raccontato che, in preparazione al Natale, il regalo più ambito non era un vestito nuovo, ma un nuovo rattoppo fatto dal Maestro. Era la promessa che quel capo avrebbe resistito un altro inverno. Era un atto d’amore, un gesto di dignità contro la povertà.
Marco, il confronto è durissimo. Noi, oggi, siamo ossessionati dalla perfezione e dalla novità. Un piccolo difetto, e l’oggetto viene scartato. La nostra tecnologia ci offre prodotti sempre più nuovi, spingendoci a dimenticare la fatica e la storia che c’è dietro ogni cosa. Loro, invece, celebravano le cicatrici dei loro abiti come se fossero medaglie.
Io ho i miei trend su TikTok che mi dicono cosa devo comprare per essere alla moda. Loro avevano la nonna che cuciva pezzi di sacco di farina sui gomiti per non sentire il freddo. Questa differenza mi fa capire quanto la nostra vita sia facile e, in qualche modo, vuota di resistenza vera.
Ho deciso che il mio sesto “Atto Bello” doveva rendere omaggio a questa dignità del rattoppo.
Oggi pomeriggio, ho preso il mio vecchio orsacchiotto, Gino. Gino è con me da quando sono nata, è sformato, ha un occhio pendente, la pelliccia rasata e un buco sotto il braccio da cui esce l’imbottitura. Di solito, lo tengo nascosto. La mia amica Chiara mi ha detto che dovrei buttarlo perché “fa impressione.”
Invece di nasconderlo, ho fatto come Monsieur Didier. Ho preso un pezzo di feltro colorato, non per nascondere il buco, ma per enfatizzarlo. Ho cucito un grande cuore rosso, goffo e irregolare, proprio sopra il buco sul braccio di Gino. Ho usato il filo di lana che la nonna mi ha regalato, lo stesso del suo gomitolo sbrogliato. Non è una cucitura perfetta; è storta e un po’ infantile.
Ma Gino adesso non è più rotto. È speciale. Il rattoppo è la sua nuova storia. È un atto di ribellione contro la perfezione e l’usa e getta. Ho messo Gino sul mio letto, in bella vista. È il mio simbolo di resilienza e di amore per ciò che resiste.
Quando la nonna ha visto Gino, ha sorriso. Non ha detto nulla sulla cucitura, ma mi ha detto: “Adesso ha una corazza in più, Cristina. Il freddo non entrerà più.”
Sto imparando che il vero Natale non è la festa della novità, ma della permanenza, del calore che resiste. Stiamo accumulando luce, Marco, atto dopo atto.
Il conto alla rovescia è a 84 giorni. Domani è il giorno della montagna, e sento che ci aspetta una storia gelida, ma luminosa.
A domani, e guarda i tuoi vecchi oggetti: riesci a leggere le loro cicatrici?
Cristina.
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