Questa mattina, alzando gli occhi al cielo ancora un po’ assonnato, li ho visti. Scie scure e ordinate, una formazione compatta e viva che fendeva l’azzurro pallido dell’alba. Stormi di uccelli, puntuali come ogni anno, pronti ad affrontare il loro lungo viaggio. E in quell’istante, come un’eco lontana che risale dal profondo del tempo, la mente ha iniziato a recitare da sola, con la cadenza un po’ cantilenante che usavamo da bambini.
La nebbia a gl’irti colli Piovigginando sale, E sotto il maestrale Urla e biancheggia il mar;
È una magia strana e potente, questa dei ricordi. Rivedo tutto come fosse ieri. L’aula delle elementari, i banchi di legno con le nostre iniziali incise di nascosto, la luce dorata di settembre che entrava dai finestroni e la maestra, con la sua voce calma, che ci guidava attraverso quei versi. “San Martino” non era solo una poesia da imparare a memoria per prendere un bel voto. Era l’inno ufficiale dell’autunno, il portale che ci traghettava fuori dalla spensieratezza dell’estate per accompagnarci, mano nella mano, verso i primi freddi, l’odore delle castagne e i pomeriggi passati in casa a fare i compiti mentre fuori il cielo si faceva scuro prima del tempo.
Ma per le vie del borgo Dal ribollir de’ tini Va l’aspro odor de i vini L’anime a rallegrar.
E l’anima si rallegrava davvero. Si rallegrava per quelle piccole cose che allora sembravano l’universo intero. Il profumo del mosto che arrivava dalle cantine, la promessa del fuoco scoppiettante nel camino, quella sensazione di calore e di rifugio, di un mondo semplice e perfetto racchiuso tra le mura di casa e le vie del paese. Era una felicità tangibile, fatta di suoni, odori e certezze incrollabili.
Oggi guardo quegli stessi stormi e sento tutto il peso e la meraviglia degli anni che sono passati. Il cacciatore che fischia sull’uscio forse non c’è più, o forse sono io che non so più ascoltarlo. E mentre osservo quel volo ostinato e potente, mi aggrappo alle ultime strofe, quelle che da bambino capivo meno ma che oggi mi colpiscono dritte al cuore, con una precisione quasi dolorosa.
Tra le rossastre nubi Stormi d’uccelli neri, Com’esuli pensieri, Nel vespero migrar.
“Com’esuli pensieri”. Non credo che Carducci potesse trovare un’immagine più perfetta per descrivere quello che sento adesso. I miei pensieri, oggi, sono esattamente così. Esuli. Esuli da un tempo che non può tornare, da un’età dell’oro perduta per sempre. Sono ricordi che si mettono in viaggio senza che io possa controllarli, scatenati da un’immagine, da un profumo, da una poesia imparata trent’anni fa. Migrano nel cielo della mia coscienza, a volte portando con sé una dolce malinconia, altre un sorriso inaspettato.
Quel volo, stamattina, non era solo il segno del cambio di stagione. Era un appuntamento. Un invito a fermarmi un istante, a respirare quest’aria frizzante e a lasciare che questi “esuli pensieri” volassero liberi. E per un attimo, l’adulto che sono, con le sue preoccupazioni e le sue corse, ha lasciato il posto al bambino che ero, con il suo stupore intatto, entrambi con il naso all’insù a guardare la vita che passa, bella e inesorabile, proprio come quegli uccelli in viaggio verso l’orizzonte.
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