Il segreto del sapone e la purificazione

Caro Marco,

Oggi, 26 ottobre. Domenica. Mancano 61 giorni. La nostra piccola trilogia di riflessioni – Tempo, Luce e Suono – si è fermata sul Silenzio. E il silenzio, nella mia mente, è legato a un bisogno primario e profondo di Purificazione.

Noi apriamo un rubinetto e l’acqua calda arriva. Schiacciamo il dosatore e abbiamo sapone profumato. La pulizia è scontata, rapida, igienica. Ma nel dopoguerra l’acqua e il sapone erano lussi.

Ho chiesto a nonna Emma del rito del lavare. E non mi ha parlato di bagno.

“Il bagno in casa?” ha riso. “Quello è arrivato molto dopo, per noi. L’acqua corrente non c’era sempre, e l’acqua calda era solo quella che scaldavi sulla stufa a legna, goccia dopo goccia. La pulizia era un lavoro, un rituale comunitario.”

Mi ha descritto la scena del lavatoio pubblico.

“Il fiume o la grande vasca di pietra nel centro del paese erano il nostro bagno e la nostra lavanderia. Le donne andavano lì, in gruppo, con la ‘lissia’ (la cenere che usavano per lavare i panni) e la tavoletta di legno. Sbattevano i panni, li strofinavano, cantavano. Il fiume era l’unico posto dove si poteva usare tutta l’acqua che si voleva – un bene infinito, pubblico, rigeneratore.”

Ma il dettaglio più toccante era il sapone.

“Il sapone non si comprava, Marco. O, se lo facevi, era un tesoro. Lo si faceva in casa, con la cenere, il grasso animale e la soda caustica. Era un sapone sgraziato, che pizzicava, ma era nostro. E ogni pezzo di sapone non era solo pulizia del corpo, era rispetto. Rispetto per il lavoro fatto, rispetto per la materia trasformata. Era il simbolo che la sporcizia – della guerra, della povertà, della malattia – poteva essere lavata via.”

La nonna ha usato una parola che mi ha illuminato: “Risciacquare”.

“Alla fine, quando il sapone aveva fatto il suo dovere, c’era il risciacquo. Lì l’acqua pura doveva portare via ogni traccia, ogni scoria. E nel vedere l’acqua sporca che si allontanava e l’acqua pulita che rimaneva, sentivi che una parte del male era andata via con essa.”

Il mio ventinovesimo “Atto Bello” doveva essere la “Purificazione Parziale”.

Ho deciso di non fare il bagno, non la doccia. Ho voluto provare il rito del lavare i piedi, come faceva la nonna la domenica, con una piccola tinozza di acqua calda e un sapone fatto in casa (per fortuna, una mia amica li produce).

Mi sono seduta per terra, con la tinozza ai piedi. Ho scaldato l’acqua sul fuoco del gas. E ho usato quel piccolo pezzo di sapone senza fretta, concentrandomi sul gesto.

Marco, nel nostro mondo, pulire i piedi è un dettaglio da doccia rapida. Ma in quel rituale lento e parziale, ho scoperto una profonda umiltà e un senso di liberazione. I piedi sono la parte che ci porta, che poggia sulla terra, che si sporca. Lavarli con cura, dopo la frenesia della settimana, è un atto di gratitudine verso il corpo e di separazione dal mondo.

Mentre l’acqua sporca si allontanava nel lavandino, ho visto simbolicamente andare via il mio “sporco” interiore: l’ansia delle scadenze, la rabbia per una parola detta male, la fretta di vivere.

Mancano 61 giorni. E ho capito che il vero Natale non è la festa della grande pulizia, ma il piccolo rito della purificazione interiore, quel risciacquo che permette di togliere le scorie e di ricominciare.

Ci manca il valore sacro dell’acqua, del sapone, del gesto lento. Se non puliamo i nostri piedi simbolici, la nostra anima non sarà pronta ad accogliere la festa.

E tu, Marco? Qual è il tuo “sporco” che devi lasciar andare, lo scarto che devi risciacquare prima del grande giorno? C’è un piccolo gesto umile che puoi compiere per darti una sensazione di nuovo inizio?

A domani, e che l’acqua pura ti rigeneri.

Cristina.


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