Il silenzio della neve e il ghiaccio che scalda

Caro Marco,

Oggi ho guardato fuori dalla finestra di prima mattina: sul Monte Bianco è caduta la prima neve vera, quella che non si scioglie più. Sembra che qualcuno abbia posato un enorme cappello di panna montata sulle vette, e la luce del sole la fa brillare di un bianco così accecante che quasi fa male. Qui in città pioveva, una pioggia fredda e insistente, che lava via il gesso che avevo disegnato sulla panchina (addio, Espoir effimero), ma rende i vecchi sassi romani di Aosta scuri e lucidi.

Ho pensato al contrasto: neve lassù, pioggia qui. E ho pensato a quanto sia bello e terribile il freddo.

A pranzo, la nonna Emma mi ha raccontato la sua “storia della neve,” che non è affatto romantica come nelle mie fantasie da bambina.

Lei mi ha descritto l’inverno del 1947, subito dopo la guerra. Un inverno che ha portato una quantità di neve inaudita ad Aosta. Neve alta, pesante, che paralizzava tutto. Mi ha parlato del silenzio che calava sulla città: non il silenzio pacifico, ma un silenzio minaccioso, interrotto solo dal rumore sordo delle pale che cercavano di liberare i vicoli.

Mi ha raccontato che, a causa di quel freddo e della neve, la legna per scaldarsi finì presto. La mia bisnonna, per non far congelare i bambini, era disperata. Non c’era un influencer che desse consigli sul risparmio energetico, non c’era Amazon per ordinare stufe. C’era solo l’ingegno e la comunità.

Mi ha parlato di Zio Vittorio, un uomo anziano e burbero che viveva nel loro palazzo. Era tornato dalla guerra con un problema respiratorio, ma aveva un cuore d’oro. Zio Vittorio era un maestro nel trovare e conservare il calore. Invece di bruciare legna (che era scarsa e umida), lui usava le pietre.

La sera, riscaldava sul fuoco quel poco che aveva – magari qualche pezzetto di carbone o cenere – un grande sasso liscio e piatto trovato nel letto della Dora Baltea. Lo avvolgeva in uno straccio vecchio e lo portava ai bambini. Quel sasso, Marco, non era caldo come un termosifone, ma era un calore onesto, che durava tutta la notte. Non era un oggetto di lusso, ma un pezzo di fiume che, per magia, scaldava i loro piedi gelidi.

“Quella pietra,” ha detto la nonna, i suoi occhi fissi sulla neve in lontananza, “era il nostro miracolo del Natale anticipato. Era la prova che anche il più freddo dei fiumi poteva cedere il suo calore a chi aveva pazienza e un po’ di fede. Era un calore non comprato, ma conquistato.”

Ascoltando questo racconto, Marco, ho sentito il freddo nelle ossa, nonostante il mio appartamento moderno sia caldo e accogliente. Noi usiamo il calore come un diritto, come uno sfondo. Loro lo usavano come una benedizione.

E ancora una volta, penso alle notizie di oggi: vedo i campi profughi, le tende nel fango, i bambini che hanno solo una coperta sottile per resistere al gelo della notte. Loro sono i nuovi “bambini del 1947”. E io, con il mio riscaldamento centralizzato, mi sento in colpa per ogni grado sprecato.

Ho deciso che il mio settimo “Atto Bello” doveva essere un omaggio a Zio Vittorio e al calore lento e duraturo. Un atto contro lo spreco energetico e contro la fretta.

Oggi pomeriggio, invece di accendere subito il riscaldamento in camera mia, ho fatto una cosa lenta e laboriosa, che richiede pazienza e il calore delle mani. Ho preso i vecchi calzini spaiati di tutta la famiglia, che mia mamma era pronta a buttare (l’usa e getta!). E, ispirata dalla nonna e dal suo rattoppo, ho cominciato a cucirli insieme.

Non per farne un vestito, ma per fare una Coperta a Quadri Irregolari. Ho cucito i calzini (tutti i colori, tutte le forme) con una lentezza quasi maniacale, creando un patchwork goffo ma solido. Le mie mani si sono scaldate con il lavoro. È un calore che viene dalla dedizione, non dall’elettricità.

Questa coperta, Marco, è il mio Mattone della Memoria in versione tessile. Ogni calzino spaiato, che ha una storia e un odore (di piedi, di fatica, di casa), viene salvato dall’oblio e trasformato in un pezzo di calore. È un atto di resistenza all’abbondanza e un piccolo, silenzioso grido contro lo spreco.

Quando l’ho mostrata alla nonna, lei l’ha toccata con rispetto. Mi ha detto: “Questo è un calore che viene da dentro, Cristina. È il calore della cura. È il calore del Natale.”

Adesso la tengo arrotolata ai piedi del mio letto. È pesante, è goffa, è piena di storie. È il mio sasso scaldato per resistere all’inverno che arriva.

Il conto alla rovescia è a 83 giorni. E ogni giorno che passa, vedo l’Aosta della nonna sovrapporsi alla mia, e la vita ha un sapore più denso, meno superficiale.

A domani, e dimmi, Marco: qual è la cosa che ti scalda di più, che non abbia a che fare con l’elettricità?

Cristina.


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