La ditta e il valore del frammento

Caro Marco,

Oggi è martedì, 7 ottobre. La mattina è stata tutta un rincorrersi di nuvole basse e grigie che strisciavano sopra i tetti di Aosta, incupendo la luce sulle guglie della Cattedrale. A scuola si comincia a sentire l’ansia dei compiti e delle prime verifiche serie. Ho un’energia un po’ dispersiva, non riesco a concentrarmi.

A ricreazione, ho visto le mie amiche scambiarsi link a negozi online che hanno già iniziato a vendere le prime decorazioni natalizie. Sono oggetti di plastica luccicante, economici, che sanno di usa e getta. Le luci sono già lì, pronte, disponibili, a un click di distanza. Tutto è così veloce, Marco. Tutto è già pronto e, per questo, sembra già un po’ finito.

La mia testa, però, è rimasta ancorata al racconto che mi ha fatto la nonna Emma ieri, durante un pomeriggio passato a guardare le vecchie foto di famiglia, alcune rovinate dall’umidità e dal tempo.

Le ho chiesto se ricevevano regali sotto l’albero. Lei ha riso, una risata dolce che sapeva di cenere e di gioia. “Certo, Cristina. Ma erano regali che pesavano un tesoro.”

Mi ha parlato della Dignità del Rattoppo (quello di Monsieur Didier) e di come le cose più belle fossero quelle fatte con sacrificio, non quelle comprate con facilità. Mi ha raccontato del Natale del 1951, quando il suo papà (il mio bisnonno) era stato male a lungo, non aveva potuto lavorare per giorni, e la famiglia era alla fame vera. Non c’era speranza di comprare nulla.

Eppure, a Natale, sotto un piccolo ramo di pino che fungeva da albero, c’era un regalo solo, avvolto in carta di giornale: un pezzetto di legno liscio, intagliato con una cura quasi maniacale. Non era un giocattolo, non era una cosa pratica. Era una piccola capra selvatica, tipica delle nostre montagne, scolpita con tanta precisione che sembrava respirare.

Era un regalo del postino di Aosta, un uomo di nome Arturo, che nel poco tempo libero intagliava piccoli oggetti dal legno recuperato. Non l’aveva venduto; l’aveva scambiato con il mio bisnonno per una promessa: che il mio bisnonno, appena guarito, gli avrebbe disegnato un ritratto a carboncino, l’unica cosa che sapeva fare.

“Vedi, Cristina,” mi ha detto la nonna, i suoi occhi lucidi di ricordo, “quel postino non aveva soldi, ma aveva il tempo e l’abilità per creare bellezza. E il mio papà non aveva soldi, ma poteva donare la sua arte. Non ci siamo scambiati merce; ci siamo scambiati l’anima. La capretta di legno è stata il più grande tesoro del mio Natale, perché era fatta di tempo, di fatica, e del cuore di due uomini che si rispettavano.”

Marco, quel racconto è stato un lampo di luce contro il flash freddo della pubblicità che vedo sul mio telefono. Oggi, la gente compra oggetti di plastica a basso costo, prodotti da mani che non conoscono l’acquirente, e l’atto del donare è svuotato del suo significato più profondo. È una transazione senza anima.

Loro, in piena miseria, facevano un baratto dell’anima. Usavano le loro uniche ricchezze – il tempo, l’arte, il sacrificio – per celebrare l’altro. E capisco perché quel piccolo rattoppo, quel mattone, quel pezzo di legno inciso significassero così tanto: erano la prova che la mano umana aveva sconfitto la logica fredda del mercato.

Inoltre, stamattina, le notizie erano piene di un’altra tragedia: il crollo di un edificio storico in una zona di conflitto. E in me si è riacceso quel senso di impotenza. Se le mani dell’uomo sono capaci di tanta distruzione, devono essere capaci anche di un’altrettanta grande creazione e cura.

Ho deciso che il mio nono “Atto Bello” doveva essere un omaggio al Baratto dell’Anima e alla dignità della creazione lenta.

Ho preso la mia scatola dei materiali da disegno, quella che uso per fare disegni digitali velocissimi. Ho spento il tablet, e ho usato solo matite colorate e pennarelli, per costringermi a rallentare.

Ho scelto come soggetto un uomo che ho visto oggi mentre uscivo da scuola, in una via laterale. Un anziano che stava pazientemente riordinando una pila di libri usati su un carretto. Non era Monsieur Arturo, ma aveva lo stesso sguardo concentrato e dignitoso di chi valorizza ogni piccolo oggetto. L’ho disegnato.

L’ho disegnato non in modo digitale e iper-realistico, ma con un tratto caldo, lento, imperfetto. Ho messo tutte le mie emozioni in quel foglio di carta, l’odore della matita, la fatica di non usare il tasto annulla.

E poi, l’ho fatto stampare sulla carta più spessa e bella che ho trovato. Non l’ho venduto. Non l’ho regalato all’uomo (non avrei avuto il coraggio). L’ho messo in una cornice semplice e l’ho appeso nell’angolo più anonimo e grigio della nostra cucina, un angolo che è sempre stato solo un posto di passaggio.

Adesso, quell’angolo ha una storia. Ha un’anima. È un piccolo tesoro di dignità che celebra un lavoro onesto e lento. Non è un regalo a qualcuno, è un regalo alla casa, alla pazienza che deve tornare a vivere tra le nostre mura.

La nonna l’ha guardato e ha annuito, senza dire una parola. Ma il suo silenzio valeva un ringraziamento.

Il conto alla rovescia è a 80 giorni. E ogni giorno che passa, sento che stiamo costruendo qualcosa di solido e duraturo, qualcosa che il fast fashion e il fast life non potranno mai distruggere.

A domani, e spero che tu possa scambiare qualcosa di te, senza usare denaro.

Cristina.


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