Caro Marco,
Oggi, 10 ottobre. Venerdì. Il vento gelido di ieri ha spazzato via le nuvole, e Aosta si è svegliata con un cielo di un azzurro quasi violento. La luce è così intensa che sembra quasi di poterla toccare. È una giornata che ti riempie i polmoni di aria fredda e tagliente. Mancano 77 giorni alla nostra meta, e sento che ogni giorno d’autunno è una pagina spessa di attesa.
A scuola, una compagna di classe era in ritardo. I suoi genitori avevano avuto un problema con la macchina, bloccata su una stradina in montagna. Tutti in classe si sono messi a guardare il telefono per vedere le condizioni delle strade in tempo reale. Ho pensato a quanto siamo abituati a tracciare tutto, a sapere esattamente dove si trova chi amiamo, in un istante.
Ho chiesto alla nonna Emma del freddo e dei viaggi nel dopoguerra.
Lei ha ricordato che, in quegli anni, le strade non erano sempre libere e le comunicazioni erano inaffidabili. Mi ha parlato dei “Viaggiatori della Speranza”, uomini – e a volte donne – che lasciavano Aosta per cercare lavoro in Francia o nella Svizzera, spesso con la neve alta e senza soldi per il treno.
Mi ha raccontato di suo cugino, Ermanno, che partì nel gelo del novembre 1948. La paura di non vederlo più era costante. Non c’era un GPS, non c’era modo di mandare un messaggio. C’era solo l’attesa, il silenzio, e la fiducia.
Mi ha descritto il rituale della partenza: la nonna, ancora bambina, era l’unica a piangere, mentre gli adulti si sforzavano di sorridere. La cosa più importante che Ermanno portava con sé non era un documento o del denaro, ma un pezzo di pane duro, di segale, cotto dalla sua mamma con un pizzico di sale in più per la conservazione.
Quel pane non era solo cibo, Marco. Era una bussola emotiva. La nonna mi ha spiegato che Ermanno non doveva mangiarlo subito. Doveva conservarlo, lasciarlo indurire. Lo avrebbe mangiato solo nel momento di massima disperazione, quando il gelo e la solitudine fossero diventati insopportabili. Quel pane sapeva di casa, di Aosta, di promessa. Era la prova tangibile che qualcuno ti aspettava, la memoria solida di un luogo caldo da cui si era partiti.
“Il pane non gli scaldava il corpo, Cristina,” ha detto la nonna, fissando le mie mani. “Gli scaldava la memoria. Noi non tracciavamo la posizione, tracciavamo il ricordo. Eravamo sicuri che sarebbe tornato, perché aveva quel pezzo di casa che lo teneva legato al Natale.”
Ascoltando questo, ho pensato alla differenza tra i nostri “viaggi”: noi partiamo con il telefono carico e una carta di credito. Loro partivano con un pezzo di pane duro. Noi abbiamo la certezza della connessione. Loro avevano la fede nella memoria. La nostra tecnologia ci dà sicurezza immediata, ma ci ruba la profondità dell’attesa e la sacralità dell’oggetto semplice.
E la violenza nel mondo, che vedo oggi sullo schermo: quante persone sono in fuga, con quanto poco, magari solo la memoria di una casa ridotta in macerie? Quel pezzo di pane duro di Ermanno, per loro, potrebbe essere l’unica cosa che li tiene in vita.
Ho deciso che il mio dodicesimo “Atto Bello” doveva onorare il Pane della Memoria e la forza del legame in assenza.
Oggi pomeriggio, invece di usare il mio telefono per i soliti reel divertenti, ho fatto un lavoro di riparazione della memoria usando la tecnologia in modo sacro.
Ho chiesto alla nonna la ricetta esatta del pane che la sua zia aveva dato a Ermanno (è una ricetta valdostana molto antica). L’ho cercata online (sì, la tecnologia serve), e poi ho dedicato due ore a impastare. Non per mangiarlo subito, ma per fare un piccolo, goffo “Pane del Viaggiatore” – denso, scuro, pieno di semi.
L’ho cotto e, una volta raffreddato, non l’ho messo in tavola. L’ho avvolto in un vecchio panno di lino della nonna e l’ho nascosto nel mio cassetto, in mezzo ai miei calzini, proprio come se stessi partendo per un viaggio lungo e incerto.
L’ho fatto per me, Marco. Per ricordarmi che la casa e la famiglia non sono solo un luogo fisico, ma un “ricordo solido” da portare con sé quando il freddo, la fretta o la paura (dovuta alle notizie del mondo) mi attanagliano. Quel pane è lì, duro, un po’ amaro, ma è il mio simbolo di resistenza.
Quando la nonna mi ha chiesto perché non l’avevo messo in tavola, le ho solo risposto: “È la mia scorta di speranza per il grande gelo che arriva. Lo mangeremo solo a Natale.” Ha capito subito il riferimento a Ermanno, e ha sorriso con gli occhi.
Il conto alla rovescia è a 77 giorni. E ogni giorno, la nostra attesa si fa più ricca, più lenta, e più densa di significato.
A domani, e spero che tu possa trovare un pezzo di pane – o un qualsiasi oggetto – che sia per te una solida memoria.
Cristina.
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