La memoria e custodire i nomi.

Caro Marco,

Oggi, 31 ottobre. Venerdì. Siamo a 56 giorni dal Natale. Dopo aver parlato di ricostruzione materiale, di suono e di gioco, è giunto il momento di toccare la pietra angolare di ogni rinascita: la Memoria.

Quando ho chiesto a nonna Emma dei morti della guerra, c’è stato un lungo silenzio. Un silenzio diverso da quello imposto dalle campane mute. Un silenzio sacro.

“I morti erano dappertutto,” mi ha raccontato. “C’erano i soldati che non tornavano, i civili uccisi nei bombardamenti, i giovani caduti nella Resistenza o nella ritirata. E per anni, non si parlava di loro con troppa enfasi, non nelle piazze. Il dolore era troppo grande. Ma la casa, quella sì, era piena di memoria.”

L’Altare Segreto: Nelle case povere, mi ha spiegato nonna Emma, si creavano piccoli “altari della memoria” sui comò. Una foto sbiadita del marito, del figlio o del fratello caduto, un santino, un nastro militare. Non erano oggetti di culto pubblico, ma la custodia privata del lutto. Quel piccolo spazio era il luogo dove si conservava la presenza del defunto, dove si parlava con lui sottovoce, dove si insegnava ai bambini il nome e il valore di chi aveva sacrificato la vita.

I Nomi Incisi: La vera e più profonda memoria, però, era quella che doveva diventare civile. Il primo atto della comunità non fu solo ricostruire case e chiese, ma erigere i Monumenti ai Caduti. Quei monumenti, semplici, con l’elenco dei nomi incisi sulla pietra, erano il primo segno che la morte aveva avuto un senso, che il sacrificio era stato riconosciuto dalla Nazione (o dalla Repubblica che stava nascendo). Mettere un nome sulla pietra significava strapparlo all’oblio e includerlo nel tessuto della nuova democrazia.

Il Dovere della Storia: La ricostruzione fisica e morale non poteva avvenire senza questo “Dovere della Memoria”. Ricordare non significava solo piangere, ma capire. Capire gli orrori per non ripeterli; capire il valore della libertà per difenderla. La memoria diventava l’antidoto contro la superficialità e l’indifferenza. Era la benzina etica per la ricostruzione.

La memoria, dunque, non è una cosa del passato, ma l’atto più vivo e fondamentale per costruire il futuro. È l’ancora che ci lega al costo della nostra libertà.

Il mio trentacinquesimo “Atto Bello” è la “Visita Silenziosa”.

Oggi ho compiuto un gesto che raramente faccio: sono andata al cimitero del mio paese. Non per visitare i miei defunti diretti, ma per camminare tra le tombe di coloro che non conosco, in particolare quelle dei soldati o delle vittime più anziane, morte in anni lontani.

Mi sono fermata davanti a un monumento ai caduti della Seconda Guerra Mondiale. Lì, sulla lapide di marmo, ho letto i nomi, uno per uno: Mario, Giovanni, Franco, tutti giovani. Li ho letti a voce bassa, come se dovessi assicurarmi che fossero ancora “presenti” in quel momento.

Non ho pensato alla loro storia militare, ma solo al fatto che erano “Nomi”. Famiglie intere li avevano pianti, e per un attimo, leggendoli, mi sono sentita parte di quella catena di dolore e riconoscimento. Ho lasciato un minuto di silenzio assoluto davanti a quei nomi. Nessuna preghiera formale, solo il mio silenzio pieno, un atto di rispetto verso la loro memoria che, ancora oggi, fonda la mia libertà.

Mancano 56 giorni. E ho capito che il Natale, nella sua attesa, ci invita a riflettere sulla Memoria viva che portiamo dentro.

Dobbiamo chiederci: qual è la tua “lapide” interiore? Quali sono i nomi, le lezioni, i sacrifici (non per forza legati alla guerra, ma ai tuoi errori, alle tue perdite, ai tuoi maestri) che hai dimenticato di onorare e che dovrebbero essere il fondamento della tua vita di oggi? La vera ricostruzione parte dalla volontà di non banalizzare il costo di ciò che abbiamo ricevuto.

Non lasciare che i tuoi valori, le tue conquiste, i tuoi affetti più profondi si trasformino in una statistica. Dagli un nome, una presenza, un rito quotidiano di silenzioso ricordo.

A domani, Marco. Custodisci i tuoi nomi.

Cristina.


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