Caro Marco,
Oggi, 2 ottobre, è stata la giornata degli oggetti che non esistono. Sono tornata a scuola, e ho passato le ore a usare il tablet per fare una ricerca sulla storia del telefono. È ironico, Marco. Sto usando un dispositivo che mi connette istantaneamente al mondo intero per studiare un mondo in cui la comunicazione era un lusso e un miracolo.
Oggi la mia connessione 5G era velocissima. Ho potuto vedere, in tempo reale, filmati sui centri di soccorso per le vittime di quei lontani conflitti di cui ti parlo sempre, ho visto la tristezza negli occhi dei bambini, e il mio cuore si è stretto in una morsa fredda. L’informazione è istantanea, il dolore è istantaneo, ma la possibilità di agire è lontana anni luce.
A merenda, ho cercato il rifugio della nonna Emma. Le ho chiesto: “Nonna, come facevi a sapere cosa succedeva lontano? Come comunicavi con i tuoi parenti che se n’erano andati, magari in Francia o Svizzera per cercare lavoro subito dopo la guerra?”
La nonna ha preso in mano il gomitolo che le avevo sbrogliato giorni fa, e ha ricominciato a lavorare alla sua sciarpa senape. Mi ha parlato del Telefono Pubblico.
“Non c’era il tuo apparecchio magico,” ha esordito. “C’era l’Ufficio Postale. E dentro, una cabina telefonica che sembrava un confessionale. Entravi, l’addetta ti faceva aspettare, e tu aspettavi. Aspettavi ore, a volte giorni, per una ‘Chiamata Interurbana’.”
Lei mi ha descritto l’ansia di quel momento. Il filo era fragile, la comunicazione carissima. Si entrava, e si aveva un tempo preciso – tre minuti, cinque minuti – per dire tutto ciò che contava: che si stava bene, che c’era abbastanza da mangiare, che la salute reggeva. Non c’erano saluti lunghi, non c’erano emoji, non c’erano chiacchiere. C’era la verità compressa.
“Quando parlavamo con i parenti emigrati a Lione,” mi ha detto la nonna, “il filo gracchiava, si interrompeva, e dovevamo gridare. Ma quel filo, Marco, anche se spezzato e rumoroso, era la cosa più preziosa. Sapevamo che era un ponte di speranza che avevamo costruito con il sacrificio di qualche lira, e lo trattavamo con il rispetto che si dà a un tesoro.”
Oggi, io parlo con te e con tutti i miei amici senza pensare al costo, senza pensare al tempo. Mandiamo migliaia di messaggi, spesso inutili, pieni di abbreviazioni che svuotano le parole del loro significato. Noi siamo iperconnessi, ma le nostre parole hanno perso peso, sono diventate leggere come la polvere.
Loro erano connessi raramente, ma quelle poche parole erano mattoni emotivi che reggevano la distanza.
E qui sta la cosa che mi tormenta, Marco. Noi abbiamo la capacità di sapere, in un secondo, delle atrocità del mondo. Abbiamo la tecnologia per mandare aiuto, per organizzare raccolte fondi, per gridare la nostra indignazione. Ma lo facciamo? O la facilità della comunicazione ci ha resi pigri? Non c’è più il sacrificio della chiamata interurbana. Tutto è facile, quindi tutto è dimenticabile.
Ho deciso che il mio “Atto Bello” di oggi (il quinto, siamo in marcia!) doveva riguardare il dare peso alle parole e alla connessione.
A scuola, c’è un ragazzino di prima, un po’ solo, si chiama Elia. È nuovo ad Aosta e non parla bene l’italiano. Gli altri lo evitano, perché non sanno come comunicare con lui. La cosa facile sarebbe stata mandargli una richiesta di amicizia su un social.
Invece, sono rimasta in silenzio per cinque minuti durante la ricreazione, concentrandomi su cosa dirgli di veramente importante in tre minuti. Mi sono ricordata della nonna nella cabina. Sono andata da lui e gli ho parlato non di compiti o di trend, ma solo di una cosa: gli ho descritto la bellezza del Monte Emilius la mattina, come si accende di rosa. L’ho fatto lentamente, con parole semplici.
Lui mi ha guardato. Non ha risposto con parole, ma ha tirato fuori un piccolo taccuino e mi ha disegnato una stella alpina. Un simbolo, Marco. Una comunicazione non verbale, ma potentissima. Quella stella valeva più di mille chat. Era un messaggio interurbano arrivato a destinazione. Un filo emotivo teso con sacrificio.
Quando sono tornata a casa, mi sono accorta che il gomitolo della nonna era quasi finito e la sciarpa senape aveva una lunghezza impressionante. Ogni giorno, la nonna tesse la sua attesa, un filo alla volta. E io tesso la mia, un atto di bellezza alla volta.
Sento che il Natale non è solo una festa di luci, ma un’occasione per ricucire i fili spezzati della nostra umanità, quelli rovinati dalla troppa velocità e dalla superficialità.
Il conto alla rovescia è a 85 giorni. E ogni giorno che passa, la magia del passato mi aiuta a dare un senso al presente.
A domani, e tieni d’occhio quel filo invisibile che ci lega.
Cristina.
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