Caro Marco,
Oggi, il sole è finalmente tornato ad Aosta, ma è un sole che non riscalda, solo illumina. Camminare per le vie del centro è come essere dentro una cartolina: la luce radente illumina le vecchie pietre e fa risaltare ogni crepa, ogni segno del tempo.
Sono andata di nuovo verso la Torre dei Balivi e la cinta muraria romana. Volevo rivedere il luogo dove ho trovato il simbolo inciso. E ho trovato l’Uomo delle Mura! Era lì, seduto sulla stessa panchina di pietra, ma stavolta non era immobile: stava intagliando un nuovo pezzo di legno, con un coltellino piccolissimo e affilato. Sembrava concentrato come un chirurgo.
Non ho osato disturbarlo, Marco. Ho preferito osservarlo da lontano. I suoi gesti erano lenti, meditati. Non c’è fretta in quell’uomo, c’è solo un’immensa pazienza. La sua figura, seduta di fronte alla rovina gloriosa delle mura, mi ha fatto pensare a quanto siamo bravi oggi a costruire cose nuove, ma quanto siamo frettolosi nel rispettare le cose vecchie.
Ho portato questa riflessione alla nonna Emma quando sono tornata a casa. Le ho chiesto: “Nonna, voi avevate l’ansia di ricostruire, ma avevate anche il tempo di rispettare le rovine, le cose vecchie?”
Lei ha messo da parte il suo lavoro a maglia e mi ha raccontato una storia incredibile sul rispetto per la storia nell’immediato dopoguerra.
Mi ha parlato di un grande progetto, nel 1949, per asfaltare una parte di quello che oggi è il Viale Conte Crotti. Erano anni in cui l’asfalto era un segno di modernità, di progresso, un modo per lasciarsi alle spalle i sentieri di fango della guerra. Gli operai erano entusiasti, lavoravano velocemente, con la fretta di chi vuole vedere un futuro lucido e liscio.
Ma a un certo punto, durante gli scavi per posare i tubi, hanno trovato qualcosa: i resti di un’antica tomba romana, con oggetti fragili, di vetro colorato.
Mi ha raccontato che il capocantiere, un uomo burbero di nome Dino, che voleva solo finire il lavoro in fretta, voleva coprire tutto con l’asfalto, dicendo: “Sono solo vecchie pietre, dobbiamo progredire!”
Ma c’era un anziano muratore, Mastro Giovanni, un uomo che aveva la storia negli occhi, che si è opposto. Si è messo in ginocchio nel fango e ha pulito pazientemente quei vetri e quelle ossa antiche. Ha detto: “Non si costruisce il futuro se si seppellisce il passato. Queste non sono vecchie pietre; sono la nostra radice. Dobbiamo rallentare per farle parlare.”
Alla fine, Mastro Giovanni e la gente del quartiere hanno convinto tutti. Hanno rallentato, hanno scavato con cura, hanno protetto quel piccolo tesoro sotto l’asfalto. La nonna mi ha detto che per il Natale di quell’anno, la scoperta di quei frammenti era stata festeggiata più del nuovo viale. Era un segno che la bellezza dimenticata poteva riemergere, anche dal fango e dalle macerie.
Vedi, Marco, noi oggi abbiamo Google Maps, scanner 3D e tutte le tecnologie per preservare la storia, ma ci lamentiamo quando un cantiere rallenta per un ritrovamento archeologico. Abbiamo perso quella pazienza sacra che avevano loro, il senso che il tempo non è solo una freccia in avanti, ma anche una radice profonda.
Il telegiornale di ieri sera parlava di nuovo di bombardamenti e distruzione di siti storici nelle zone di guerra. E mi sono sentita male. Loro, nel dopoguerra, celebravano un frammento di vetro antico; noi, con tutta la nostra tecnologia, permettiamo che intere storie vengano polverizzate dalla violenza.
Ho deciso che il mio ottavo “Atto Bello” doveva onorare la lezione di Mastro Giovanni: rallentare e preservare.
Sono andata nel giardino della nonna. C’è una vecchia aiuola abbandonata, piena di erbacce e sassi. Sotto un roseto selvatico, c’era una piccola statuina di terracotta rotta, senza un braccio, forse parte di un presepe dimenticato.
Invece di gettarla via o restaurarla alla svelta, ho fatto un lavoro di archeologia lenta. Ho pulito ogni pezzetto di terra con un pennello morbido (quello che uso per i miei colori), ho tolto le radici senza strappare, e ho creato per lei un piccolo “altare” di sassi puliti e lisci, proprio lì, nell’aiuola dimenticata. Non ho cercato di ripararla, ma solo di esporla con dignità.
La statuina rotta, illuminata dalla luce bassa del pomeriggio, è diventata bellissima, Marco. La sua rovina parla. È il mio piccolo tesoro salvato dall’asfalto dell’oblio.
Quando la nonna l’ha vista, ha capito. Mi ha detto che la statuina era di suo padre, e che da piccola aveva perso il braccio a causa di una caduta. “Grazie, Cristina,” ha detto, “Adesso ha una casa che non è solo una scatola, ma un luogo di memoria.”
Stiamo costruendo il nostro Natale, Marco, con la lentezza e il rispetto di Mastro Giovanni. Non vogliamo luci veloci e fragili, ma un calore che viene da lontano, dalle radici.
Il conto alla rovescia è a 82 giorni. Il tempo scorre, ma noi procediamo con calma.
A domani, e spero che tu possa trovare un piccolo, prezioso frammento di storia sotto i tuoi piedi.
Cristina.
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