La santità del pane e la condivisione della crosta

Caro Marco,

Oggi, 27 ottobre. Lunedì. Mancano 60 giorni. Il viaggio attraverso il passato, dopo il tempo, la luce, il suono e l’acqua, mi conduce al centro della sopravvivenza e della rinascita: il Cibo.

Nella nostra abbondanza, il cibo è scelta, dieta, tendenza, talvolta spreco. Ma ho chiesto a nonna Emma del cibo nel dopoguerra. E lei mi ha parlato solo di Pane.

“Il pane non era un contorno o un ingrediente, era la vita stessa,” ha detto, con una solennità quasi religiosa.

Mi ha raccontato che durante e subito dopo la guerra, il pane era razionato con la tessera annonaria, a volte solo 150-200 grammi al giorno. “Non era nemmeno pane buono,” ha specificato. “Era nero, fatto con farina mischiata, a volte anche crusca o farina di mais. Si chiamava ‘pane della fame’.”

Ma nel dopoguerra, pur tra le difficoltà, il pane tornò lentamente a simboleggiare la rinascita.

“Quando il grano cominciò a tornare e il pane a farsi più bianco, era come vedere il sole dopo un lungo inverno. E la prima cosa che si faceva era baciare la pagnotta. Ancora oggi, se vedi un pezzo di pane caduto per terra, lo raccogli, lo baci e chiedi perdono,” ha detto nonna, facendo il gesto. “Questa non è superstizione, è rispetto per il sacrificio che c’è dietro: il seme, il lavoro della terra, il mugnaio, il fornaio, e la fame che abbiamo conosciuto.”

Il momento cruciale per la comunità era il Forno comune.

“Nelle campagne, le famiglie impastavano in casa, spesso solo una volta alla settimana per risparmiare. Poi portavano le loro pagnotte al forno comune del paese. Ognuna aveva un segno distintivo per riconoscerla. Le donne aspettavano insieme, sentivano l’odore caldo e forte che era odore di futuro, di pancia piena. E quando lo riportavi a casa, non lo tagliavi mai, Marco. Lo spezzavi. Perché il pane va spezzato e condiviso, mai misurato.”

Ho compreso che il pane non era solo nutrimento fisico, ma l’elemento fondante della comunità e della dignità ritrovata. Non sprecare una crosta era un dovere morale e un atto di memoria.

Il mio trentesimo “Atto Bello” doveva essere la “Benedizione del Pane”.

Ho comprato una pagnotta intera da un panificio artigianale. Arrivata a casa, non l’ho messa nel cesto con indifferenza. L’ho tenuta in mano, calda, e ho compiuto i gesti che la nonna mi ha descritto: l’ho portata al cuore per sentirne il peso e la vita, l’ho baciata per rispetto.

E al momento di mangiarla, non ho preso il coltello. L’ho spezzata con le mani, condividendola con i miei coinquilini a tavola, in silenzio per un momento.

Marco, spezzare il pane è un atto incredibilmente intimo. Non è geometrico come il taglio. È irregolare, rivela l’interno, le fibre e l’anima dell’impasto. È un gesto che obbliga a interagire con la materia viva e a condividerne la fragilità.

In quel gesto lento, ho ritrovato il vero sapore. Non il sapore del grano, ma il sapore della gratitudine. Ho mangiato la crosta con attenzione, sapendo che per intere generazioni la crosta era la parte più preziosa, quella che dava forza.

Mancano 60 giorni. E ho capito che il Natale, in fin dei conti, è la festa del Pane Spezzato per tutti.

Non è il banchetto dei grandi piatti, ma la tavola dove il pane, sacro e umile, è l’unica cosa necessaria. Spezzare il pane è spezzare l’egoismo, la solitudine. È l’atto di riconoscere che la nostra abbondanza è il frutto di una fatica che non deve essere sprecata.

E tu, Marco? Qual è il tuo “pane” quotidiano che tratti con leggerezza? C’è qualcosa di essenziale nella tua vita che non “spezzi” e non condividi, ma che semplicemente “tagli” e consumi in fretta? Riscopri la santità del nutrimento.

A domani, e che tu possa spezzare con generosità.

Cristina.


Scopri di più da FMTECH

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

Scopri di più da FMTECH

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continua a leggere