La scatola delle lacrime e la ricchezza della condivisione

Caro Marco,

Oggi, 12 ottobre. Domenica. Ad Aosta c’è un vento forte e capriccioso che ulula attorno alle vecchie torri, un vento che sa di pioggia imminente e che porta via le ultime, tenaci foglie rosse. Mancano 75 giorni e il mio cuore è pieno di un misto di speranza (per il ramo secco che sto curando) e di tristezza (per le notizie che vedo in TV, la violenza che non si ferma).

Oggi, ho pianto un po’. Non per una ragione grande, ma per un accumulo di piccole cose: la notizia di una famiglia sfollata, la stanchezza della nonna, la consapevolezza di quanto siamo fragili. Noi, oggi, siamo incoraggiati a nascondere la nostra tristezza, a mostrare solo il lato bello della nostra vita sui social.

Ho cercato conforto nella nonna Emma. Le ho raccontato la mia tristezza per le guerre lontane che mi sembrano così vicine. Lei mi ha ascoltato, e poi mi ha raccontato una storia sulla condivisione del dolore nel dopoguerra.

Mi ha parlato di una sua amica, Teresa, una bambina che aveva perso il padre in battaglia e non aveva mai avuto il coraggio di piangere in pubblico, temendo di essere un peso. La nonna mi ha descritto l’atmosfera di quel periodo: c’era tanta miseria, ma anche una profonda, silenziosa solidarietà tra le donne e i bambini.

Mi ha raccontato che, in ogni condominio della vecchia Aosta, c’era una “Scatola delle Lacrime”. Non era fatta per i giocattoli, Marco, ma per i segreti dolorosi. Era una vecchia scatola di legno, pesante, che veniva passata di casa in casa nei pomeriggi piovosi come oggi.

Dentro la scatola, non si mettevano oggetti. Si metteva un biglietto, scritto a mano, che raccontava la cosa più brutta che ti era successa quel giorno: la fame che non passava, il ricordo di un caro perduto, la paura del domani. Dopo aver scritto, dovevi chiudere il biglietto e rimetterlo nella scatola. Nessuno leggeva il biglietto degli altri, ma sapevi che la scatola conteneva tutto il dolore del palazzo.

“Quando tenevi in mano quella scatola,” mi ha spiegato la nonna, i suoi occhi profondi, “sentivi il peso di tutte le tristezze del vicinato. Capivi che non eri sola. Il tuo dolore non era più un carico solitario, ma era condiviso. E questo rendeva la tristezza meno acuta. La Scatola delle Lacrime era il nostro modo per resistere al silenzio che uccideva l’anima.”

Mi ha detto che, in vista del Natale, quel rituale diventava ancora più importante: il dolore condiviso si trasformava in una speranza collettiva per la luce.

Vedi, Marco, noi oggi ci connettiamo per condividere la gioia superficiale (i successi, le foto perfette) ma nascondiamo il dolore. Se pubblichi la tua tristezza sui social, diventi “negativo” o cerchi attenzione. Loro vivevano la comunità del dolore con una dignità e una profondità che noi abbiamo perso. Il nostro dolore è isolato, il loro era un patrimonio comune.

Questa riflessione mi ha fatto capire quanto la mia sensibilità per le guerre, che mi fa piangere, non debba essere nascosta o sminuita, ma condivisa in modo vero, non virtuale.

Ho deciso che il mio quattordicesimo “Atto Bello” doveva onorare la Scatola delle Lacrime e la potenza della condivisione vera.

Ho preso una vecchia scatola di scarpe, l’ho decorata con un panno di lino scuro e l’ho trasformata nella mia “Scatola della Condivisione”. Ma invece di metterci i miei problemi, ho voluto mettere i problemi che sento da fuori.

Ho preso i vecchi giornali e ho ritagliato le notizie che mi fanno più male – quelle sui bambini che scappano dalla guerra, sulla fame, sulla violenza – e le ho piegate con cura, una ad una, come se fossero le “lacrime” del mondo.

Ma ho aggiunto una cosa: per ogni ritaglio di notizia triste, ho scritto un piccolo biglietto che cominciava con “Io mi impegnerò a…” seguito da una promessa specifica: “…a non sprecare cibo per onorare chi ha fame,” “…a parlare di pace per un minuto al giorno,” “…a dedicare un’ora al silenzio.”

Ho messo tutto nella scatola e l’ho sigillata con un pezzo di spago. La scatola adesso è pesante, Marco. Contiene il peso del mondo, ma anche il peso delle mie promesse e della mia azione. È la mia dichiarazione di resistenza alla rassegnazione.

L’ho messa in salotto, non nascosta, ma in un angolo discreto. Non è lì per essere letta, ma per essere sentita.

La nonna l’ha vista e mi ha sorriso dolcemente. Ha preso un sassolino dalla tasca (forse quello del ramo secco) e l’ha appoggiato sopra la scatola. “Adesso il dolore e l’impegno sono uniti,” mi ha detto. “Quando si condivide la fatica, la speranza diventa più forte.”

Il conto alla rovescia è a 75 giorni. E sto imparando che la Luce del Natale non deve accecare il nostro dolore per il mondo, ma illuminare il nostro impegno a cambiarlo.

A domani, e spero che tu possa trovare qualcuno con cui condividere un peso, senza paura di giudizio.

Cristina.


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