L’erba amara e il lusso dei sapori

Caro Marco,

Oggi, 9 ottobre. Giovedì. L’aria di Aosta è diventata grigia, pesante, e un vento gelido soffia lungo il Viale della Stazione, facendo vorticare le foglie gialle. Sembra che la città stia tirando su la cerniera del suo cappotto invernale. Mancano 78 giorni a Natale, e il tempo sembra correre, ma io cerco di rallentarlo con le storie.

Oggi, a pranzo, la mamma ha cucinato qualcosa di molto elaborato, che ha richiesto ore di preparazione. Ho visto il suo stress per rendere il pasto perfetto, con tanti ingredienti diversi, presi da tutti gli angoli del mondo grazie ai nostri supermercati moderni. E questo mi ha spinto a chiedere alla nonna un’altra cosa: com’era il cibo nel dopoguerra?

La nonna Emma ha riso, una risata amara. “Il cibo non era una ricetta, Cristina. Era sopravvivenza.”

Mi ha raccontato che, negli anni della miseria, qui ad Aosta e in Valle, il lusso non era avere molti ingredienti, ma averne uno solo e sapere come usarlo fino all’ultima briciola. Mi ha parlato del tarassaco, l’erba amara che cresce ovunque in primavera.

Lei e le sue amiche, da bambine, venivano mandate nei campi, non per giocare, ma per raccogliere queste erbe amare. Non c’era cioccolato, non c’erano caramelle. C’era solo il sapore forte e selvatico della terra.

Mi ha descritto come sua madre, la mia bisnonna, preparava la Zuppa di Tarassaco. Non era un piatto gustoso, Marco. Era amara, verde, essenziale. Ma era anche la prova che la terra, nonostante la guerra e la fame, continuava a dare. E l’atto di riunirsi attorno a quel tavolo, tutti insieme, per mangiare quella zuppa amara e calda, era un rituale di resistenza e di gratitudine.

“Il vero lusso, Cristina,” mi ha detto la nonna, i suoi occhi fissi sul piatto elaborato della mamma, “non era la varietà, ma la rarità. Se avevi una sola patata, quella patata era l’universo. Oggi voi avete cento sapori, ma non sentite più il sapore della fatica e del dono.”

Mi ha raccontato che la festa del Natale era l’unica in cui potevano permettersi, a volte, un piccolo pezzetto di salame, messo da parte da mesi con un sacrificio immenso. Quel salame non era solo cibo, era la celebrazione della tenacia, il sapore della promessa mantenuta. E lo mangiavano lentamente, Marco, lentissimamente, per far durare quel lusso il più possibile.

Ho pensato a me, che spesso lascio il cibo nel piatto se non mi piace, o che scelgo solo gli snack più dolci e facili. La nonna mangiava l’amaro della terra e lo trasformava in forza. Noi mangiamo la dolcezza, e diventiamo, forse, un po’ troppo molli.

E ancora, le notizie: vedo sullo schermo i volti dei bambini che non hanno accesso a nulla, che mangiano poco o nulla. E la mia abbondanza mi sembra quasi un’offesa.

Ho deciso che il mio undicesimo “Atto Bello” doveva onorare la Dignità della Raritá e il Sapore della Fatica.

Oggi pomeriggio, invece di aprire una confezione di biscotti industriali, ho chiesto alla nonna di insegnarmi una sua ricetta. Non la Zuppa di Tarassaco (non è stagione), ma qualcosa che rappresentasse la parsimonia e l’uso di tutto: le “Fritelle di Pane Vecchio”.

È una ricetta semplicissima, Marco: pane duro di tre giorni, bagnato nel latte, zucchero e uova, fritto. Ma il punto non era il gusto. Il punto era la lentezza del processo. Ho dovuto aspettare che il pane si ammorbidisse. Ho dovuto usare le mani per impastarlo, sentendo la consistenza goffa del pane che torna alla vita. E ho usato solo gli ingredienti essenziali che avevamo in casa.

Mentre le friggevo, l’odore di casa – un odore di vaniglia e pane rinato – ha invaso l’appartamento. Non è l’odore sofisticato dei dolci di oggi, ma un odore onesto, che sa di riscatto.

Quando le abbiamo mangiate, la nonna le ha assaggiate lentamente, gli occhi chiusi. “Sanno di speranza, Cristina,” ha detto. “Sanno di quando capisci che anche la cosa più povera può dare gioia se la rispetti.”

Ho capito, Marco, che il Natale non è la festa della grande abbondanza, ma la celebrazione della qualità dell’essenziale. Il lusso non è avere tanto, ma dare valore a quell’unico pezzetto di salame, a quell’unica patata.

Il conto alla rovescia è a 78 giorni. Stiamo imparando a masticare l’attesa.

A domani, e spero che tu possa trovare un sapore inaspettato in qualcosa di semplice.

Cristina.


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