Il 3 marzo ho compiuto gli anni. Una data come tante, nulla di particolare o di importante in realtà…
Eppure…
Non ho scritto nulla sui social, non ho fatto alcun tipo di promemoria, non ho lanciato frecciatine o postato immagini che potessero suggerire la ricorrenza.
Ho aspettato. E il risultato?
Solo sei persone si sono ricordate del mio compleanno, senza alcun aiuto esterno. Sei persone che, senza il supporto di un algoritmo, hanno tenuto viva la memoria della mia data di nascita.
Sei persone che, spontaneamente, hanno sentito il desiderio di farmi gli auguri, perché ricordavano la data, perché avevano un pensiero per me, perché forse in qualche modo occupo un piccolo spazio nei loro cuori.
E sapete la cosa più sorprendente? Tra queste sei persone, alcune erano davvero inaspettate. Non necessariamente le più vicine, non quelle con cui parlo tutti i giorni o quelle che fanno parte del mio quotidiano.
Persone che magari non sentivo da tempo, eppure il loro messaggio è arrivato. E mi ha fatto enormemente piacere.
Poi, il giorno dopo, ho fatto notare la cosa. Ho accennato, in modo del tutto neutrale, che il giorno precedente era il mio compleanno. Ed ecco che si è scatenata la reazione a catena. Una valanga di messaggi, notifiche, auguri di ogni tipo. “Oddio, me l’ero dimenticato!”, “Augurissimi in ritardo!”, “Ma perché non hai detto nulla?”, “Ah, davvero era ieri?”.
E lì ho iniziato a riflettere. Su quanto i social abbiano cambiato il nostro modo di vivere certe ricorrenze. Su quanto ormai ci affidiamo a un promemoria automatico per ricordare le cose, senza che sia più una nostra memoria a guidarci.
Non ricordiamo più le date di nascita, lo ammetto, io per primo. Ci affidiamo a Facebook o ai calendari digitali per ricevere notifiche. E se qualcosa non ci viene segnalato, semplicemente non esiste.
Ma è davvero così? Possibile che l’affetto e l’attenzione si riducano a un input esterno? Possibile che senza un reminder nessuno si prenda la briga di fare un gesto spontaneo?
In un certo senso, è stato quasi un esperimento sociale. E l’esito è stato abbastanza chiaro: la maggior parte delle persone non ricorda più nulla senza un aiuto tecnologico. Ma il dato più interessante non è questo, bensì il diverso peso che hanno avuto i due momenti: gli auguri spontanei delle sei persone mi hanno scaldato il cuore, mi hanno fatto sentire veramente pensato, presente nella mente e nel cuore di qualcuno. Gli auguri arrivati dopo, invece, avevano un sapore diverso. Alcuni, ovviamente, erano sinceri, perché magari la persona era davvero dispiaciuta di aver dimenticato.
Ma molti altri suonavano quasi forzati, come se fossero fatti per dovere, per recuperare una dimenticanza, più che per vero affetto.
Questo mi ha portato a una riflessione più ampia. In un’epoca in cui siamo sempre connessi, in cui abbiamo migliaia di “amici” sui social, in cui riceviamo auguri da perfetti sconosciuti solo perché un algoritmo ha segnalato una data, quanto valore hanno davvero questi gesti?
Quanto conta un messaggio di auguri mandato perché un’app ce l’ha ricordato rispetto a uno nato dal cuore, dalla memoria e dall’affetto vero?
Forse siamo diventati così dipendenti dalla tecnologia da aver dimenticato il valore della memoria e della spontaneità.
Forse, in un mondo dove tutto è programmato e automatizzato, i gesti più belli sono quelli che sfuggono alle logiche del sistema, quelli che avvengono senza un promemoria, senza un avviso, senza un’aspettativa.
Questo piccolo esperimento mi ha insegnato una cosa: il valore di un gesto non sta nella quantità, ma nella qualità. Sei persone, in silenzio, senza che nessuno glielo dicesse, hanno pensato a me. E questo vale più di cento auguri arrivati in ritardo solo perché l’ho fatto notare.
Quindi forse, la prossima volta, invece di affidarci ai social per ricordare i compleanni, potremmo provare a ricordarli davvero. E a fare quel piccolo gesto spontaneo, senza aspettare che sia un’app a dircelo. Perché è nei gesti spontanei che si nasconde la vera essenza dell’affetto.
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